A cura del prof. Luigi Zanzi

 

La “montagna dei Walser”, in un rifugio sopra Gressoney.
Il Monte Rosa può considerarsi la “montagna dei Walser”: infatti alcune genti di stirpe “alemanna” si fecero “montanari” e divennero coloni delle “terre alte” nelle Alpi, provenendo dal Vallese e intraprendendo una grande migrazione in alta quota, da ovest verso est, a partire dal sec. XIII. Inventando nuove vie di valico, di valle in valle, e attestandosi con insediamenti permanente là dove, al più, erano arrivati soltanto alcuni alpeggi stagionali, colonizzando a pascolo i terreni d’alta montagna, talvolta prativi, ma spesso aridi e petrosi, di volta in volta laboriosamente e pazientemente dissodati con cura, i Walser trasformarono il mondo “alpino” rendendolo “abitato” anche nelle sue “terre alte” e facendone il laboratorio di una nuova cultura imperniata su “stili di vita” proprî di una gente che vive “in montagna” e “di” montagna. Tale avventura dei Walser cominciò proprio attorno al Monte Rosa – tanto che Horace Bénédict de Saussure ebbe a definirli lapidariamente come “La sentinella tedesca del Monte Rosa-: Gressoney e Issime furono tra i più importanti stanziamenti di tale mirabile “civilizzazione” delle Alpi. Da allora il Monte Rosa, dall’alto delle sue vette rocciose e dei suoi candidi ghiacciai, sembra sorridere luminosamente all’incontro con tale avventura.

Tradizione Walser nell’ospitalità più moderna.
Come gli antichi padri Walser hanno colonizzato le alte Alpi, così i loro discendenti, Oreste e Arturo Squinobal, hanno voluto costruire, in perfetto rispetto delle regole d’arte proprie della tradizione dell’architettura Walser, un rifugio per “ospitare” gli alpinisti ed assisterli nelle loro escursioni di media e alta quota, tra le ultime zolle erbose e le prima balze rocciose verso i ghiacciai e le vette del Monte Rosa, della Piramide Vincent, del Lyskamm. La scelta del sito, la definizione dei profili di fabbrica, l’impostazione strutturale, la scelta di materiali impiegati per la costruzione, il criterio del più integro rispetto della natura (anche tramite autosufficienza energetica ottenuta con l’installazione di pannelli solari e di autonoma centrale ad acqua), tutti tali aspetti incorporano la più “classica” tradizione Walser. Ulteriore caratteristica d’avanguardia tecnologica, quale sempre distinse la civiltà Walser nel tentativo di riuscire ad adattarsi alle difficoltà dell’ambiente naturale dell’alta montagna, è quella che si ritrova nell’idea progettuale di combinare tutti i requisiti della più confortante ospitalità della tradizione con le più aggiornate strutture di servizio di varia sorta (dall’illuminazione, al riscaldamento, ai servizi igienici, ecc.). L’opera stessa della costruzione è stata compiuta direttamente, “a mano a mano” e “mano per mano”, dalla famiglia Squinobal, in tre anni di lavoro (ed era stata preparata già con l’opera di Oreste).

Il legno, sapienza di natura.
Anche solo a vederlo, il rifugio “parla” di come è stato costruito: concepito per incorporare in sé la sapienza, antica e naturale, del legno (il larice delle selve del Monte Rosa, coi suoi profumi, i suoi nodi, le sue vene che s’innervano nell’incastro a “block-bau” che regge gli spigoli del rifugio). La natura ha trovato così, nell’opera dell’uomo, la formazione di un “luogo” in cui regna il retaggio vivente della sua intrinseca sapienza.
Di per sé la salita al rifugio si svolge attraverso itinerari incantevoli per la flora alpina e per la varietà degli spettacoli panoramici al cospetto dell’incombente Piramide Vincent e di alcuni “corni” rocciosi, come quello “rosso” e quello “del camoscio”, attraenti forme rupestri che svettano nere sul ghiacciaio d’Indren. Si sale lungo sentieri che, in parte, ricalcano gli antichi itinerari d’alpeggio (residuano mirabili tracce di antiche costruzioni come il ponte in pietra sul sentiero 6a e come le grandi macine del mulino dove si lavorava la pirite aurifera proveniente dallo Stolemberg). Già dalle prime postazioni d’avvistamento s’intuisce che “là”, incastonata tra le pieghe rocciose dei primi salti verso la Piramide Vincent, c’è una “casa” dove, in perfetto stile con la tradizione Walser, ci si troverà accolti a vivere in un altro mondo, in un altro tempo, un mondo dove regna lo spirito della “montanità”.

Il moschettone del ricordo.
l rifugio – Orestes Hütte – è dedicato alla memoria di Oreste Squinobal. Come di ritorno da un’arrampicata si appendono al piolo in rifugio la piccozza e i moschettoni; così, nell’intrattenimento prima o dopo l’escursione, si appiglia la conversazione al moschettone del ricordo per un’escursione nella memoria. Oreste Squinobal (1942-2004), insieme con Arturo Squinobal, ha formato una cordata che, negli anni 1970-1980, si è imposta come tra le più forti e preparate d’Europa: realizzarono, tra l’altro, alcune “prime invernali”, di valore “estremo”, tra cui la “direttissima” alla parete sud del Cervino-Matterhorn, nel 1971, la cresta integrale di Peutérey al Monte Bianco, nel 1972, la “direttissima” alla punta Signal-Gnifetti del Monte Rosa, nel 1978, la parete ovest del Cervino-Matterhorn, nel 1978. Insieme anche con il fratello Renzo vinse il trofeo Mezzalama nel 1975, Nel 1982 Oreste raggiunse la vetta del Kanchenjunga (m. 8.596) senza ossigeno, in “stile alpino”. Uomini “Walser” di personalità complessa, questi, di cui Oreste fu un esemplare mirabile: montanaro, cresciuto ed educato fin da fanciullo, all’Alpe Cialvrina, ai lavori duri della “ruralità” montana, poi artista falegname, esperto carpentiere, fidato costruttore, ed insieme guida alpina (come gli avi Johan, Niklaus, Peter-Joseph Knubel e Antonio Curta) e, last but not least, grande alpinista. Impigliato nel moschettone del ricordo, come lo stelo d’un fiore di roccia, c’è il suo sorriso, il suo sguardo penetrante, il suo entusiasmo vibrante e incantevole come il sibilo di un “assolo” di tromba (eseguito, come Lui usava fare, su “in alto”, nel “vento dei quattromila”).